Valderice, provincia di Trapani, via Carollo, ore 7,15 del 25 gennaio 1983. Via Carollo è una stradina, appena fuori Valderice, dove la mattina di 30 anni addietro una pattuglia dei carabinieri trovò ferma all’altezza del civico 2 un’auto, obliqua rispetto alla sede stradale: era una Golf, col lunotto infranto, in frantumi anche il vetro del lato guida, era evidente che il vetro era esploso a causa di colpi di arma da fuoco; steso tra i due sedili anteriori, con la testa reclinata sul bracciolo del lato passeggero, un corpo senza vita, un braccio disteso, a penzoloni, l’altro piegato sul torace, l’orologio della plancia dell’auto era fermo all’1,12.
Un morto ammazzato, crivellato di colpi d’arma da fuoco sparati da diverse armi. Quella notte dovette esserci una incredibile tempesta di fuoco, da far tremare mura e finestre, ma nessuno sentì nulla nonostante la via Carollo sia una strada stretta. Aveva 41 anni la persona ammazzata, era un magistrato, sostituto procuratore della Repubblica a Trapani, il suo nome … Gian Giacomo Ciaccio Montalto.
Quando fu ucciso era in procinto, pochi giorni ancora, di lasciare la Procura di Trapani per andare a quella di Firenze. Ecco la storia è questa. Gli anni, metà del 1980, erano quelli in cui a Trapani sentivi dire che la mafia non esisteva, e invece Ciaccio Montalto era uno di quelli che ne aveva registrato la presenza in tanti faldoni d’indagine, a cominciare da quelli che riguardavano l’inquinamento del golfo di Monte Cofano, una zona splendida tra Erice e Custonaci, una conca tra terra e mare ricca di bellezze naturali, e ancora nelle inchieste che portavano al riciclaggio del denaro sporco dentro le imprese, società, le banche. Lui da magistrato attento avvertì la «puzza» della mafia corleonese, colse la scalata a Trapani dei “viddani” di Riina, sentì il «tanfo» della morte che di lì a poco, non risparmiando nemmeno lui, avrebbe fatto la sua comparsa e colse le infiltrazioni mafiose dentro gli uffici della giustizia, delle istituzioni, perché la mafia era già riuscita a incunearsi dentro lo Stato per diventare essa stessa Stato. Chi era Ciaccio Montalto?
Quarantenne sposato, lasciò la moglie, Marisa La Torre, e tre figlie, Marene, Elena e Silvia di 12, 9 e 4 anni. Era figlio di siciliani, ma non era nato in Sicilia ma a Milano dove allora suo padre Enrico lavorava, pure lui magistrato di grande spessore tecnico e che fu presidente di sezione della cassazione.
Chi era mio padre Gian Giacomo?
“Eravamo bambine – scrive Marene Ciaccio Montalto – non posso sapere se non con cose lette, sentite e consapevolizzate dopo, come fosse la figura del giudice, dell’uomo dello Stato. Posso dire una cosa che molto spesso passa inosservata: aveva 41 anni. Era nel fiore della sua vita e la amava in tutte le sue forme. Amava la musica, il mare e la libertà, e per difendere questa libertà, di pensiero, di parola, di fare il proprio lavoro con scrupolo e dedizione, ha pagato il prezzo più alto. Lo ha pagato per tutti, anche per quelli che girano le testa e tacciono. Era un padre, il migliore del mondo, e amava le sue figlie; e lui era tutto per loro: era il mito, l’amico ed il compagno di giochi; era un riferimento nello studio e nella crescita”.
“Ciaccio Montalto – ricorda il giudice Mario D’Angelo – era siciliano nell’anima e in tutto il suo essere. Amava profondamente questa terra e tutto ciò che di positivo vi si trova pur avendo piena consapevolezza che senza l’affrancazione dal giogo della mafia e dalle incrostazioni di tanti poteri più o meno occulti non sarebbe stata mai possibile una vera rinascita. Non si può ricordare Giangiacomo Ciaccio Montalto senza far cenno ai molti suoi interessi culturali, che con tanta forza manifestava avendo una speciale capacità di coinvolgimento e di trasmettere agli altri i suoi entusiasmi: la passione per certi scrittori, da Eco, allora poco famoso, a Tomasi di Lampedusa, a Marquez; la sua venerazione per Beethoven, l’amore per la lirica, per Bellini, quello affettuoso per Verdi insolitamente collegato ad un notevole apprezzamento per Wagner, le predilezioni per alcuni interpreti da quelli famosi quali Toscanini, Cortot, Richter, Ghilels, la amatissima Callas, ad altri quali Pollini e Daniel Rivera, percepiti subito come grandi da Giacomo con straordinaria sensibilità e consacrati tali negli anni successivi alla sua morte, le passioni più popolari per la canzone napoletana d’autore, per le nostre tradizioni gastronomiche, per il mare che solcò facendo viaggi ardimentosi pur quando all’inizio della sua esperienza nautica, aveva una pratica limitata”.
“Le sue giornate erano scandite dalla musica – ricorda il sostituto procuratore Dino Petralia – il suo sguardo rivolto verso l’infinito azzurro del mare, ma il suo impegno giornaliero si manifestava nell’esame curioso e acuto delle carte processuali, con l’ostinata determinazione di chi sa che la Sicilia potrà guadagnarsi una dignità solo liberandosi dall’asservimento ai poteri criminali. Una consapevolezza molto più forte di quella di tutti noi che gli lavoravamo accanto; vissuta, in certi momenti, talvolta innanzi ad esiti investigativi non sempre soddisfacenti, come vera e propria sofferenza. Anche lui ucciso, come molti altri in Sicilia, per avere fatto semplicemente il suo dovere, ma probabilmente il “semplicemente” non si addice alla storia ed ai tormenti della Sicilia”.
“Aveva una cultura profonda e tante passioni, dai classici greci e latini, allo studio della musica che amava al punto da scrivere dei saggi e da prendere lui stesso lezioni di pianoforte – dice ancora Marene che come il padre oggi è anche lei amante della musica è diplomata in violoncello ma le piace suonare anche al pianoforte – Era solito immergersi in quell’oceano di suoni che lo aiutava a staccare da problemi e preoccupazioni a noi allora sconosciuti, ma non mancava mai di rendercene partecipi, parlando di musica, raccontando la trame delle opere liriche o facendo confronti tra le varie interpretazioni. Gli piaceva coinvolgere le persone care nelle sue passioni, dalla fotografia, alla barca, alla pesca subacquea, ed uno dei ricordi più dolci e più dolorosi è il bagno accanto a lui, con maschera e pinne, in una mano il fucile o il retino e l’altra stretta alla sua. Questa mano ci è stata strappata in modo violento”.
Ciaccio Montalto si ritrovò giovane ad essere la memoria storica della procura di Trapani dove lavorava dal 1971. Questa, più della vendetta per le indagini, è la ragione per cui la mafia ritenne necessario ucciderlo. Il magistrato aveva colpito gli interessi delle cosche applicando senza attendismi la legge sul sequestro dei beni “la Rognoni- La Torre” approvata nel settembre 1982 ed aveva individuato sin da allora il ruolo di Riina, Provenzano, Messina Denaro, Bagarella, e dei boss locali, dei Milazzo di Alcamo, del clan locale dei Minore, aveva portato davanti alla Corte di Assise alcuni esponenti di queste cosche. Poco prima di essere ucciso il magistrato aveva rivelato che durante il processo un imputato gli aveva fatto un segno che nel linguaggio mafioso significa condanna a morte.
Prima ancora che giungessero nei Tribunali le confessioni di Tommaso Buscetta, lui aveva provato la sua intuizione della struttura unitaria di Cosa nostra sino a quel periodo ritenuta una costellazione di sistemi in competizione, pur accomunati da modelli operativi comuni. Aveva chiesto di essere trasferito alla Procura di Firenze, ma nel frattempo aveva proseguito senza sosta il suo impegno, sino alla sera che precedette la sua uccisione, trascorsa nei preparativi della requisitoria che avrebbe dovuto pronunciare l’indomani. Negli anni ’80 la provincia di Trapani era divenuta terreno per la scalata al potere dei corleonesi.
Ciaccio Montalto fu un «uomo dal candido coraggio», come ancora oggi dicono di lui alcuni suoi colleghi, primo fra tutti Dino Petralia: “Senza volerlo e sicuramente neppure immaginarlo – scrive il magistrato – Giacomo Ciaccio, nei primi anni ottanta – ad una distanza quasi trentennale da oggi – era già un anticipatore della figura del magistrato moderno: un giudice attento ai cambiamenti del costume, rispettoso della legge ma non acritico spettatore dei suoi mutamenti, coltivatore del dubbio ma d’idee chiare sull’ingiustizia mafiosa e sui suoi pericoli sociali, mai difensore cieco della magistratura come potere, assertore convinto, invece e sempre, del suo obiettivo di servizio, umile ed autorevole insieme. Chi lo ha frequentato ed ha lavorato con lui sa bene quanto Ciaccio tenesse al valore etico del giudice e del pubblico ministero. Giacomo Ciaccio è stato anche un precursore dell’antimafia giudiziaria; le sue indagini su Cosa Nostra americana e trapanese, l’ostinata consapevolezza che in provincia funzionassero raffinerie di droga e che Trapani, in una parola, fosse al centro di un crocevia d’interessi affaristico-criminali tanto intensi ed intrecciati quanto forte e ben strutturato era il radicamento delle “famiglie” mafiose, lo hanno dimostrato le carte, i processi, le sentenze”.
L’apice nel novembre del 1982 quando venne fatto sparire durante una cena di boss nel palermitano, a Partanna Mondello, a casa di don Saro Riccobono, il capo dei capi della mafia latifondista trapanese, Totò Minore. Pochi giorni dopo quella cena di morte la pax voluta da Minore cominciò a frantumarsi. Cominciarono a morire gli avversari interni ed esterni delle cosche, coloro i quali per i corleonesi di Totò Riina erano dei nemici. E il giudice Ciaccio Montalto fu tra i primi a finire nel mirino, perché Cosa Nostra aveva più di una ragione per avere paura per quel magistrato. «Ciaccinu arrivau a stazione» disse un giorno in carcere il capo mafia di Mazara Mariano Agate, «era arrivato alla stazione, al capolinea»: Agate aveva capito che Ciaccio Montalto aveva scoperto una serie di canali dove dentro scorreva denaro, per questo fu ucciso. Aveva individuato una cosca di siciliani in Toscana, alcamesi, palermitani e massoni.
Era a Firenze, nella città dove nel frattempo gli esattori Salvo di Salemi avevano trasferito le sedi delle loro società di riscossione, che stava andando a lavorare, per questo fu ucciso. Una morte violenta che ha smosso il rimpianto di un grande scrittore e giornalista, Vincenzo Consolo, che su Ciaccio Montalto ci ha lasciato una preziosa eredità. Da cronista raccolse una sera lo sfogo del magistrato che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista ». Lo scrittore aveva vissuto Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale “L’Ora” il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto. Consolo ricorda: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse di volermi incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito.
Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. “Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa”, disse». Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera.
“Nessuno può immaginare il dolore e la rabbia di aver perso un genitore in questo modo; la rabbia verso le istituzioni che lo abbandonato e che hanno lasciato sola anche la sua famiglia – scrive ancora Marene Ciaccio Montalto – Il disagio e la paura di una madre rimasta sola con tre bambine, la più piccola delle quali aveva appena quattro anni; una leonessa che si è trovata sola a proteggere i suoi tre cuccioli da una cosa più grande di lei e che ha dovuto sopperire all’assenza dell’altro genitore”. Parlare di Ciaccio Montalto oggi. Usando le parole di ieri dell’ex procuratore di Bologna, Enrico De Nicola, «il ricordo è la traccia da seguire per il futuro». E poi ce lo ha detto il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto, «per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione».
Noi – conclude Marene – questo conosciamo: il dolore, che abbiamo sempre vissuto in forma strettamente privata, ed anzi tenendocelo dentro per non caricare le sorelle o la mamma anche del nostro; l’orgoglio di avere avuto due genitori in gamba e che non si sono mai fermati davanti a nulla; l’esempio che abbiamo ricevuto da tutti e due, e la forza che ci hanno trasmesso e che ci aiuta ad andare avanti anche quando ci ritroviamo in ginocchio. Il dolore, e la rabbia, quelli non si placheranno mai”. «Ulisse era il mito di Ciaccio Montalto» ha svelato un suo amico, il pediatra Benedetto Mirto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Governo e parlamento permettendo, ma bisogna riconoscere come eroi davvero chi lo merita e chi lo fu e non come spesso continua ad accadere eroi per i più restano mafiosi e corrotti. Trent’anni dopo l’assassino di Gian Giacomo Ciaccio Montalto è questo che purtroppo continua ad accadere. A Trapani ma non solo a Trapani.
Rino Giacalone
da “I pizzini della legalità” Coppola Editore
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